Ma dove vai con quel sedere?

Metamorfosi

Nel 1975 mi innamorai perdutamente. Un perdutamente che profumava di acqua di colonia, leggera fragranza che per natura svanisce rapidamente, alla prima pioggia.

Fu un amore con ricordi sfumati di campagna, di cinema parrocchiali, di attese che le lancette dell’orologio in cucina si mettessero sull’attenti alle ore sei.
L’intimità di quel tempo era come un cartone animato, colorata avventura per bimbi, nostalgica infanzia per adulti in cerca di sé.
Durò il tempo necessario per capire qualcosa e fare confusione su tutto. “Ogni cosa a suo tempo” valeva anche in amore.

La poltroncina rosa in camera, compagna di lettura la sera, ascoltò le mie lacrime, sorresse la prima crepa del cuore prima che mi spezzasse a metà. Mia madre, poco avvezza a slanci emotivi, stava stranamente seduta sul letto singolo, come me.
Silenziosa, partecipava passandomi fazzoletti di carta per asciugarmi gli occhi.

Universitaria fortunata, inconscia di esserlo, vivevo in casa di proprietà. Il mobilio, per quell’epoca, era più che dignitoso, moderno, scelto con cura.
Scartai sul tavolo un etto di prosciutto cotto, lo arrotolai sui grissini torinesi e iniziai a mangiare, incurante dell’ora in cui i sogni accompagnano, le fasi REM.
La nutella nel vasetto sembrava un mare in tempesta, onde ammalianti alla nocciola ristoravano olfatto e gusto. Su biscotti fatti in casa.
I mesi che seguirono quel Natale mi videro lievitare.
La meditazione era lontana da me, il rifugio nel masticare aveva sostituito l’amore all’acqua di colonia.
Mia madre mi cuciva le gonne per trattenere l’imponenza raggiunta, qualche faldone sfumava le rotondità.
L’ultima confezionata era rosso fuoco, strideva con la chioma fulva, accentuava il mio bisogno di trovare pace nel cibo.

Ero nell’ingresso di casa, stavo per uscire di rosso celata. Mio padre e compagno di segreti giovanili mi guardò. Si grattò, come faceva sempre quando stava pensando, l’orecchio destro.

Disse.

“Ma dove vai con quel sedere?”

E se ne andò.

Era il segnale. Era lui che mi amava. A modo suo lo fece capire. Mi dovevo amare come lui amava me, sua figlia.
Da taglia forte dovevo diventare forte io.
Era luglio e i muri esterni di casa erano pieni di coccinelle.

Comprai un paio di jeans taglia 44, andai dal medico. Iniziai a mangiare da sola, tutto pesato. Passeggiata dopo pranzo e dopo cena, massaggi professionali per tenere tonica la pelle. Fatica, tanta, resilienza, gli occhi di mio padre, tenacia asciugarono pian piano lacrime di grasso e di spaesamento.

Il succo di pompelmo o di pomodoro erano gli spezza fame.

Ad inizio dicembre si pensava già ai regali di Natale. Il mio era stato infilato, sopra un golfino azzurro, i capelli raccolti, un filo di trucco.
Giocai al lotto il numero 44, non vinsi nulla.
La vittoria più grande aveva un valore inestimabile.

Paola Pierobon

Metamorfosi
40×40 – acrilico, matita su tela – Anno 2022