Donna schiva, fianchi dal fascino gaudiano, un viso che da anni, nei solchi che le portano benessere, si nutre di sole, così sia.

I duecento metri che separano le nostre dimore permettono pochi scambi di sorrisi o di salute.

La pioggia sottile ci fece incontrare su di un marciapiede stretto.

“Non se ne può più di questa estate incerta.” disse.

“Neppure la pioggia ritmata dalle correnti ferma noi donne” risposi; alleggerire i disagi aiuta ad aprirsi, pensai.

“Ci ho provato, sai, ma niente da fare.”

Rimasi silenziosa in attesa che qualche vento favorevole mi aiutasse a capire.
Le sue mani spostavano con imbarazzo il sacchetto del pane da una parte all’altra.
Non un refolo.

“Dove compri il pane? Il profumo è buono.” indicai con un dito il sacchetto.

“Mio marito voleva portarmi a mangiare una grigliata, meno di cinquanta chilometri da casa, un posticino rustico, ma pulito.”

Pensai che sarei andata dal mio solito panettiere.

“Ne vuoi assaggiare un pezzo?” mi disse.
Era già scesa dall’auto, il breve viaggio si era già concluso?
La ringraziai, avevo appena fatto colazione.

Fu un fiume in piena, come un temporale di montagna.
Abitiamo in montagna.
Mi raccontò, come fossi l’amica di sempre, le vicissitudini viventi e vissute, una madre incosciente da accudire, un ritmo serrato di vincoli ed abitudini.
Annaffiò il vaso dolente, colmo di perché non risolti, con grosse gocce di equilibrio precario, di attacchi di panico che sopraggiungono non appena la sua mente supera i consueti tracciati.

“Durano un paio di ore, poi mi acquieto.
Ho provato a cantare per distrarmi, ma quando l’auto ha raggiunto il punto più alto che separa la nostra roccia dalla pianura, non ce l’ho fatta. Mio marito ha girato l’auto e siamo rientrati.”

Mi chiese di nuovo se gradivo un tocco di pane. Le dissi di sì, si illuminò.
Era buono, anche controvoglia. Mi chiese cosa avrebbe potuto fare per stare meglio.

Mi chiesi perché uno scroscio d’acqua non venisse a salvarmi, un fuggi-fuggi generale mi avrebbe dato la risposta corretta, non darla.
Forse l’incontro con uno specialista la avrebbe potuta aiutare a disintossicarsi pian piano da un accumulo di pensieri negativi, di paure, di fobie.

Ma chi ero io per parlare, per suggerire, per confortare?
In tali situazioni ci si sente trafitti da sguardi che cercano soluzioni, risposte, esperienze.
Sono sofferenze silenti, che non hanno colori definiti come un semaforo.
Non c’è un percorso, una strada con strisce bianche che permettano di attraversarla. Non esistono precedenze o sensi unici. Nè sole, nè pioggia alterano.
Avvengono e basta, incontrollabili scollamenti dal sé, incontri con un altro sé, sconosciuto, temuto, invadente.
Quella bussola naturale che tiene eretta la mente con il corpo si smagnetizza.

Il mio braccio accolse il suo, le gambe fecero un giro su se stesse, cambiarono direzione. Un bar nei pressi, una bibita o un caffè avrebbero distolto Laura dal suo pellegrinare stabilità.

“Amo il mio giardino – disse – lì mi sento al sicuro.”

Dall’esterno vediamo solo ciò che appare, siamo incapaci di entrare nel giardino altrui e spesso arroghiamo il diritto di criticare, di esprimere giudizi. Quando Laura mi chiese scusa di avermi bagnata non di pioggia, ma delle sue lacrime troppo trattenute, mi sentii di cingerle le spalle.

“Ci sono fiori bellissimi nel tuo giardino.” le dissi.

La pioggia li aveva ristorati dall’arsura estiva.