Il pozzo in mezzo al Campo è la nostra casa. Rotonda, con un gradino che fa saltellare su e giù. Ho finito la terza media. E’ estate, giugno. Ilaria mi aspetta. Venezia, con lei, è magica. Nel pozzo chiuso da una pesante cupola di ferro ci sono tutti i nostri sogni. Sogni diversi, ma sogni.


La mattina, per arrivare al pozzo, dobbiamo preparaci. E’ un rito. Il salone grande della casa non divide le stanze che si aprono, guardandosi dentro. Guardarsi dentro. E’ tutto grande, anche le porte, di antico legno che ha vissuto l’umidità della laguna. Il seminato alla veneziana ricama decori su un pavimento sconnesso dal tempo, rosoni, putti, greche. La cromia del marmo gioca con i raggi del sole che entra dal balcone ombreggiato di bifore.
“Ilaria si è svegliata”.
“Paola arriva subito, tesoro”.
La prima persona è lei. La prima persona non c’è. E’ fuori di lei, in un mondo tutto suo. Non si sente, ma Sente.
“Ilaria ha paura?  Ilaria ha paura?  Ilaria ha paura?  Ilaria ha paura?”
“Nooo, Ilaria non ha paura. Ilaria non ha paura. Ilaria non ha paura.”
Noi abbiamo paura. Della loro diversità. Per loro è la loro vita.
La colazione è un rito. I gesti sono sempre gli stessi, ripetuti, ossessivi, incerti. La certezza arriva tardi, arriva.
Vanno lavate le mani, tante volte, tante volte. Le mani di Ilaria devono essere pulite. Devono cercare i sogni nel pozzo.
Il calendario appeso sul muro della cucina recita un santo per ciascun giorno. Ilaria li conosce tutti, ha memoria. La memoria non tradisce, aiuta a vivere. Aiuta ad orientarsi.  La vesto di blu, a Ilaria piace il blu. E’ il colore della sua laguna, dice ad Ilaria.
“La Paoletta ha una macchina blu. La Paoletta ha una macchina blu. La Paoletta ha una macchina blu.”
“Sì, tesoro, è blu.”
Ilaria si lava le mani, usciamo. Le scale hanno il passo lungo. Le fa saltando, Ilaria deve stare attenta, se no cade. Ilaria non cade mai.
La corte interna, dal selciato incerto, è la Venezia che non si vede da fuori. Si vede solo da dentro, come l’anima. E’ Venezia antica, la donna nuda con il muschio sulla bocca che zampilla acqua, occhi a bifora che seguono i palazzi, fiori. Tanti fiori. Le mani di Ilaria li conta, tutti. Arriva infondo, accarezza l’ultima rosa sbocciata. Come lei.
Suona il piano. Ascoltare le sue dita sui tasti è melodia. Ilaria descrive l’anima con la musica, cerca di capire la mia. Così distante, ma uguale. I sentimenti hanno forme ed esressioni differenti, non diverse.
La stretta fondamenta ci porta al ponte. Il ferro battuto compone ogni giorno ricami diversi. Ilaria vuole fare un vestito per Ilaria con quei ricami.
Lo faremo, domani.
Si apre il campo, corre veloce al pozzo, si gira. Ride. Torna indietro di corsa, si tuffa in un abbraccio dentro di me. Le bacio i capelli.
E scappa. I pericoli nostri qui non ci sono, non ci sono auto. I pericoli di Ilaria qui non ci sono, non ci sono pericoli.  C’è solo la fantasia con cui costruire minuti, ore, giorni. Si siede sul gradino del pozzo. La guardo. Dondola. Avanti e indietro. Allunga le gambe, si guarda i piedi, si guarda le mani. “Ilaria deve lavare le mani. Ilaria deve lavare le mani. Ilaria deve lavare le mani.”
“Giochiamo prima, tesoro, poi Ilaria lava le mani.” Provo a rivolgermi a lei in prima persona. Mi guarda, non capisce. Gira la testa, cercando con chi sto parlando. In silenzio mi guarda ancora. Si pulisce le mani sul vestito di cotone blu, restano piccole strade di polvere. Gli occhi si splancano.
“Ilaria ha paura.” Ride, ride forte. “Ilaria non ha paura. Gioca con Paola”. Con la stessa immaginazione apriamo insieme la cupola del pozzo.
Oggi è un giorno speciale, è un sogno speciale. Mi accarezza i capelli, li pettina con le dita, li alza, li arruffa, mi copre il viso.

Le mani di Ilaria liberano i miei occhi, ora Vedo.