Si ritrovano tutti i mercoledì con qualsiasi tempo, con qualsiasi animo. 
La vecchia gelateria, che di moderno ha solo il nome, si affaccia sulla strada che unisce il paese alla città. Un caldo pomeriggio di luglio si siedono alla Baita del Gelato. Lì si gusta un gelato artigianale buono come solo gli abitanti del posto sanno fare da generazioni.  I giovani lo hanno esportato in Germania dove ora vivono, ricchi. La Baita è la gelateria della loro amicizia, del loro gelato alla vaniglia. Si incontrano lungo la statale polverosa che collega i due paesini dolomitici più frequentati della zona.

“Dai facciamo finta di essere turiste” dice Clara a Paola. “Ma dai! E chi lo sa il milanese o il romano?… eppoi meglio rimanere locali, Aldo per questo ci fa la coppa di gelato più grande!” Paola ride, felice di avere Clara di fronte. L’alluminio del tavolino rotondo gioca con un raggio di sole e colpisce gli occhi grandi di Clara. E’ bellissima, seduta, capelli a modo, come dice lei, colorata e croccante come le tendine a quadretti che ornano le finestre della sua cucina. Truccata, labbra importanti accese di rosso fuoco. Mette gli occhiali da sole. Tace. “Il barbaglio ti infastidisce?” Paola sposta un pò il tavolino. “Non è quello” Clara abbassa la testa. “Ho sempre un gran peso qui.”  La mano sfiora il ventre. Le mani di Clara sono come il cuore, forti, mascoline, senza anelli. La fede?  “Ho perso la fede nel torrente della vita, quello che scorre sotto, in mezzo alla montagna, hai presente Paola? La fede sta in quello che fai, non in quello che indossi… poi si riempie di farina e di lievito a impastare pizze… meglio senza.” 

Figura imponente, nei tratti e nel carattere. Corpo irrobustito dalla fatica del vivere, dal burro e dal formaggio di malga, occhi neri, grandi come i suoi denti, grande viso. Una Grande Donna. “Sei andata a farti un controllo? Hai chiamato? Che succede?” “Non ho tempo, sara’ la stanchezza, lavoro troppo, passerà…dai, mangia la vaniglia che senno si scioglie tutto.” Paola col cucchiaio gira il gelato che ormai e’ una pozza gialla. Guarda Clara. Clara sorride e finisce la sua coppa.

Clara e’ amica di Paola da tanti anni.
Paola è amica di Clara da tanti anni.
Sanno le pieghe dei loro cuori.
Sanno le lacrime insieme.
Sanno il silenzio insieme.

I loro incontri sono fuochi che ardono, dita che sfiorano, torrenti che straripano, canzoni che ricordano, progetti che realizzano, figli che amano, donne che palpitano.  Quando si alzano per andarsene via, Paola bacia Clara sulla guancia. “Non trascurarti, ascoltami per una volta.”  Da quel giorno Paola rivede Clara in ospedale, ricoverata per una grave emorragia. Paola non vuole ricordare l’amica con il ventre gonfio di acqua, incapace di muoversi, ma capace di sorridere e scherzare. “Ela poch bela la me panza? A la mè età an bocia… no!” (> e’ poco bella la mia pancia? alla mia eta’ un figlio non si puo'<).  Difende il dialetto dei sentimenti, delle parole, del pensare e del dire.  Tutti la devono comprendere. E’ una vittoria del cuore e della sua terra.  “Dai che torno a casa presto e mi vieni a trovare.” Clara non arriva più ad abbracciare Paola, il male lo impedisce.

Clara vive attaccata ad un tubo che le aspira l’acqua del male, il letto d’ospedale padrone del suo corpo, una maniglia a triangolo sopra la testa per provare a fare qualche movimento. Il ventre che ha generato i suoi figli si è ribellato, i polmoni invasi non la lasciano respirare. Un talcaggio tampona la corsa del male, i valori si alzano un po’. Il valore grande è tornare a casa, almeno per qualche giorno.

 

Arrivare dalla città alla montagna, la sera, con il buio, e’ un po’ come vivere. Strade strette, curve inaspettate, i fari dell’auto aiutano solo con un cono di luce. L’ombra e’ da intuire.  Paola procede lenta perché lento e continuo e’ il dolore che ha dentro . Guida silenziosa una strada diversa da quella stessa che la porta a sciare. Non c’è musica in auto, non c’è musica nel cuore. I tornanti aiutano a pensare, a ricordare, la mente torna all’ estate appena passata, appena sfiorata. E’ già inverno, la gelateria è chiusa.

Il paese di Clara saluta Paola con le prime luci fioche, quasi a rallentare il suo arrivo.  E’ montagna inaccogliente, buia anche di giorno, il sole non ce la fa a scaldarla. Solo per un ora, a mezzogiorno. 
E’ montagna dei poveri, dei vecchi, come i tabia’ non ristrutturati.  Il fieno che li addobba, strabordante dal sottotetto, e’umido. E’ la stagione che attende la neve.  Nessuno stropiccia il selciato, i caminetti e le stufe devono essere attizzati. C’e’ bisogno di un po’ di calore nelle case antiche. 

Paola lascia l’auto in bilico sul prato scivoloso vicino alla casa di Clara, aggiusta la sciarpa, guarda le stelle . Sono le stesse della città, ma brillano di più.  Sale scale esterne, i legni chiari cantano il loro scricchiolio ad ogni passo. La porta non ha chiave , in montagna non serve, si può entrare sempre. I vecchi si conoscono tutti, i giovani vanno via.  Clara ha scelto di stare, aprire una trattoria, aiutare i figli, aiutare tutti. E’ madre, sorella, contadina, donna. Paola entra, una casa piccola, in legno chiaro, una finestra grande accoglie le montagne nere di buio, il camino acceso scalda l’ambiente, non scalda il cuore. Clara è in un angolo, semi sdraiata, un fazzoletto verde in testa, golf pesante, calze coprenti sotto una gonna a pieghe. Sorride, e poi la bocca si chiude in una smorfia. Il dolore delle piaghe sulle labbra e in bocca è più forte della volontà.

“Hai visto che sono elettrica? Guarda, comando io, anche la poltrona.” Muove il pulsante, si muove la macchina del riposo… Le unghie delle mani non hanno smalto. Ora sono sollevate, arcuate, guardano verso l’alto, appese per un nulla. “Sto perdendo anche queste, quelle dei piedi se ne sono già andate.” Paola non riesce a parlare, sorride, la guarda negli occhi. “Nemmeno più il rimmel posso mettermi, non vedi qua? Il foulard colorato non può coprirmi anche gli occhi, ma la testa sì, dove c’è il cervello!” Il cervello comanda il cuore e viceversa. Non può ridere. “Tra pochi giorni mi arriva la parrucca, ordinata in Germania, di capelli veri, vedrai sarò bellissima. Dimmi di te, come stai, i ragazzi, tuo marito e non fare quella faccia, tanto non muoio.”

E’ gonfia di lacrime, non vuole vedere, non vuole sentire, non vuole. Paola deve. Paola coraggio, solo un mese prima, con Clara, al sole di vaniglia. Raccoglie l’anima e compatta il cuore, sposta lo sguardo sulle montagne nere e inizia a raccontare montagne nere di stupidaggini . Si dice che chi parla guardando altrove sta dicendo bugie. Paola dice che chi parla guardando altrove ha il cuore spezzato. Paola dice che chi parla guardando altrove vorrebbe scappare. Manca la parola, manca l’aria, manca Clara.

“Mi sistemi il cuscino?” Paola si avvicina e Clara la abbraccia forte e piange. “Non ho mai pianto, con i figli non posso, con mio marito nemmeno.”
“Con te posso. Ora sono stanca, ti devo mandare a casa. Domani ho la chemio, vieni a trovarmi in ospedale, per quattro ore lì devo stare.” Paola la rassicura, domani si vedranno, certo che sì. Primo pomeriggio andrà da Clara, accanto alla poltrona in similpelle rossa, la flebo attaccata, due parole, poco fiato, poca vita. Il giorno dopo sarà vigilia di Natale, sarà festa, sarà.

24 dicembre: al banco del pesce la mattina c’è la fila, Paola compra verdure, arance da portare nel pomeriggio all’ Amica. Squilla il cellulare, è Anna, figlia di Clara. Clara se ne è andata. Le arance rotolano per terra, si ferma il cuore e intorno è silenzio di un giorno di festa. Un signore la aiuta a raccogliere i frutti, le sorride. Lei ringrazia, raccoglie i frutti di un’amicizia. Non piange, non ne piangerà mai.

Dopo anni risente, dolce e straziante, gusto alla vaniglia.